mercoledì 12 maggio 2010

5) CONTRO LA VIOLENZA

L’ultima legge proposta dai movimenti delle donne fu quella sulla violenza sessuale, nel 1980. Il vecchio codice Rocco qualificava lo stupro come semplice “offesa al pudore“, e quindi non perseguibile in sede penale. Ma lo stupro è reato contro la persona, e come tale doveva essere riconosciuto. Dopo i grandi successi del passato, le donne pensavano che avrebbero ottenuto questa modifica di legge con relativa facilità, ma già al momento di raccolgliere le firme sorsero delle difficoltà impreviste: alla parola “sessuale“ gli uomini reagivano malissimo, e il più delle volte se ne andavano senza firmare, sibilando fra i denti “puttane“. Per evitare spiacevoli mortificazioni, il movimento si ridusse a raccogliere soltanto le firme di altre donne. Ci volle un anno, ma fu comunque raggiunto il numero di firme necessario per chiedere la modifica della legge, che fu presentata a Roma nel 1981. Ma a quel punto il movimento delle donne si ritrovò improvvisamente debole e diviso. La spinta iniziale si stava esaurendo, e le lunghe battaglie avevano logorato anche le femministe più tenaci e coriacee. Fu così che le donne di partito riuscirono finalmente a prendere il sopravvento all’interno dell’U.D.I., e di fatto la condussero alla dissoluzione, sancita ufficialmente dal Congresso del 1982. Nel frattempo, la mancanza di una vera pressione femminile aveva permesso al parlamento di accantonare la legge sulla violenza sessuale, che fu poi approvata solo nel 1996. In quell’occasione, il partito che l’aveva riesumata se ne fece gloria e vanto, dimenticandosi di spendere una sola parola per tutte quelle donne che 15 anni prima si erano prese delle “puttane” per le strade, per averla proposta in primo luogo.

4) CONSULTORI E ASILI NIDO

Il movimento delle donne in quegli anni era molto forte, e con la sua presenza massiccia all’interno di organizzazioni storiche come l’UDI o le cattoliche respingeva regolarmente i chiari tentativi dei partiti di cavalcarlo. Le richieste delle donne sull’applicazione delle nuove leggi erano mirate e precise, non generiche. La legge prevedeva i consultori? Ecco che nelle città e nei piccoli centri le donne affollavano le assemblee comunali, imponendo una “presenza” che non lasciava spazio a scappatoie. Anche gli assessori più refrattari erano costretti a trovare in tutta fretta un locale (magari anche solo uno scantinato) e un medico non obiettore che lo gestisse. Se in qualche quartiere di Milano mancava l’asilo nido - come prevedeva la legge - l’allora sindaco Tognoli si ritrovava un gruppo di donne sedute davanti al portone di Palazzo Marino con un cartello che diceva: “Tognolino siamo qua“. E non per un giorno solo: le donne si davano il cambio per 5, 10, 15 giorni, finché l’asilo nido non saltava fuori.

3) ABORTO

Molto più travagliata e sofferta fu la legge per la legalizzazione dell’aborto, che era già in vigore in altri stati europei. La prima stesura venne presentata nel 1970 dalla sinistra PCI–PSI-PSD, più repubblicani e radicali (c’era anche Rutelli fra loro), e fu appoggiata dai più importanti giornali italiani. Nuovamente il mondo cattolico, specialmente femminile, si ritrovò tutt’altro che compatto: la grande piaga dell’aborto clandestino, che colpiva le donne meno abbienti, semplicemente non poteva essere ignorata. Chi aveva possibilità economiche andava ad abortire in Inghilterra, o si affidava a medici esosi e compiacenti, oppure approfittava di cliniche private dove l’intervento veniva registrato come aborto spontaneo. La DC, che al tempo aveva larga maggioranza, non avrebbe avuto nessuna difficoltà a condurre un’opposizione, ma non lo fece. Era il periodo del compromesso storico, e la DC scelse la stabilità di governo. Ma l’iter della legge fu comunque estenuante: gli stessi parlamentari della DC disertavano le sedute, soprattutto dopo che il governo Moro ebbe dichiarato, nel 1975, di ritenere quella dell’aborto una scelta individuale. Anche in questo caso ci volle un referendum, quello del 1981, per arrivare alla depenalizzazione dell’interruzione di gravidanza, che veniva nel frattempo regolamentata molto più adeguatamente. Al momento della ratifica, Andreotti dichiarò che la sua firma avrebbe pesato sulla sua coscienza per sempre, e che avrebbe preferito dimettersi. Poi però non lo fece, come non lo fece nessun altro senatore DC che appose la propria firma.

2) DIVORZIO

Nel 1970 era stata approvata la legge che introduceva anche in Italia il divorzio, ma i gruppi cattolici reagirono con una alzata di scudi, e chiesero immediatamente l’istituzione di un referendum popolare per abrogarla. Furono però le stesse donne cattoliche a “rompere i ranghi”, ritrovandosi in molti casi a combattere per il mantenimento della legge accanto al movimento femminista. Di notte le donne affiggevano manifesti a favore del divorzio, di giorno passavano le suore a strapparli. Anche molti uomini cattolici si dichiararono comunque in favore della possibilità di divorziare, rimandando a ciascun individuo la scelta morale. Tutto questo portò a un chiaro fallimento del referendum, nel quale quasi il 60 per cento degli italiani votò per non abrogare la legge.

1) DIRITTO DI FAMIGLIA

Nel 1972 si cominciò a pensare di riscrivere alcune vecchie leggi che risalivano ai primi anni del fascismo, è questo portò alla approvazione del nuovo diritto di famiglia, avvenuta nel 1975. Queste furono le innovazioni più importanti: - Separazione nel matrimonio fra rito religioso è rito civile. - Riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio. - Depenalizzazione dell’adulterio femminile. - Comproprietà dei beni acquisiti dopo il matrimonio. - Patria potestà riconosciuta anche alla madre. In seguito sarebbe stata cancellata dal codice penale l’attenuante per delitti d’onore, e sarebbe cessato l’obbligo per le ragazze minorenni di accettare il "matrimonio riparatore".

1968, UNA DATA IMPORTANTE PER LE CONQUISTE DELLA DONNA!!

Soltanto nel 1968 si è cominciato a parlare di femminismo vero e proprio, differenziando il concetto di “emancipazione” da quello di “liberazione”. Quest’ultima conteneva qualcosa in più: non c’era solo il diritto allo studio, al lavoro, alla parità di salario, ma si trattava di mettere in discussione ruoli accettati e consolidati da secoli, si trattava di rimettere in gioco i diritti civili, e quindi di rimettere in discussione la qualità della vita. Di tutti. Nel 1970 nascono i primi collettivi femministi, all’interno dei gruppi che facevano parte del codiddetto "Movimento Studentesco". Sono le donne di Lotta Continua, definite “gli angeli del ciclostile“, a riunirsi in gruppi autonomi di discussione, mentre la parte maschile tiene comizi e assemblee. Sono queste donne che, con felice intuizione, hanno coniato lo slogan il "privato è politico". Nel 1972 i collettivi delle donne crescono e si moltiplicano in tutta la penisola. C’è il "Movimento Liberazione Donna" (M.L.D.), c’è il "Fronte Liberazione Donna", che nasce all’interno dei sindacati, c’è “Rivolta Femminile“, un gruppo teorico a cui aderiscono donne avvocato per studiare la riforma delle vecchie leggi e le proposte di leggi nuove. Il movimento delle donne cominciava ad essere propositivo. Anche se ogni gruppo agiva in perfetta autonomia, il filo che li univa era il medesimo. Punto di forza principale del movimento era il rifiuto categorico di qualsiasi ingerenza da parte dei partiti. Le riunioni erano libere, ma le donne dei partiti non avevano vita facile, per evitare infiltrazioni che permettessero poi di dare al movimento un’etichetta. Ogni donna del movimento aveva tre numeri telefono di altre donne, da chiamare in caso di mobilitazione. Le telefonate erano così 3, 9, 27, .., e nel giro di poche ore si riempivano le piazze.

PERCORSO DELLE RIVENDICAZIONI FEMMINILI FINO AL 1968...

La storia delle rivendicazioni femminili in Italia inizia verso la fine dell’800, anche se in quel periodo non si parlava ancora di femminismo vero e proprio. La lotta delle donne era legata alla lotta di classe di tutti i lavoratori, anche se era differenziata, poichè alcuni settori della nuova industria occupavano prevalentemente manodopera femminile. C’era lo sciopero delle mondine, c’era quello delle lavoratrici del tabacco, scioperavano nelle filande per le cattive condizioni di lavoro, per i salari e soprattutto per ridurre le ore lavorative da 12 a 10. Soltanto dopo la prima guerra mondiale, negli anni 20, si cominciò a parlare di “emancipazione”. Le donne chiedevano di poter votare, e chiedevano l’accesso alle facoltà universitarie da cui erano escluse. La prima donna medico in Italia risale a quegli anni. Nel 1942 nasceva a Roma, nell’Italia ancora in guerra, la Unione Donne Italiane (U.D.I.), su iniziativa di tre donne... dei nascenti partiti di sinistra: Rita Montagnani Togliatti, Maria Romiti e Giuliana Nenni. Contemporaneamente, entrava in scena un’organizzazione di matrice cattolica, il C.I.F.(Centro Italiano Femminile), guidato da Maria Rimoldi. Il numero delle rappresentanti era esiguo: 26 iscritte per il C.I.F., più o meno altrettante per l’U.D.I. Le due diverse associazioni in qualche modo rispecchiavano quella che sarebbe stata la situazione dell’Italia nel dopoguerra, con un fronte laico e uno cattolico che spesso avrebbero visto intersecarsi i loro percorsi. In quel periodo si iniziava a discutere quale dovesse essere il ruolo delle donne nella politica. Inizialmente il percorso non era autonomo, ma strettamente legato ai partiti di provenienza. La spinta femminile per l’emancipazione si esaurì con il raggiungimento del diritto al voto, nel 1946.

venerdì 7 maggio 2010

1968... GLI STUDENTI SCENDONO IN CAMPO!

Il profondo sommovimento iniziato in quell'anno durerà oltre un decennio, e coinciderà con una radicale modernizzazione complessiva del paese. Ad accendere la miccia sono gli studenti universitari. Nell'autunno del 1967 occupano gli atenei di tutte le principali città del centro-nord, con la sola esclusione di Roma.


Nel mirino della contestazione ci sono sopratutto la connotazione classista del sistema dell'istruzione, denunciata anche da una parte del mondo cattolico a partire da don Lorenzo Milani autore del severo atto d'accusa Lettera a una professoressa, e l'autoritarismo accademico, interpretato come addestramento a un consenso e a una passività globali, per nulla limitati allo specifico universitario.

La critica del movimento studentesco, i cui principali testi teorici vengono elaborati nelle università di Pisa, Torino e Trento, si appunta tanto contro il sistema capitalistico quanto contro le organizzazioni della sinistra, accusate di aver rinunciato a qualsiasi ipotesi di trasformazione radicale dell'esistente.

Di fronte al dilagare delle occupazioni i rettori chiedono l'intervento della polizia. Occupazioni, sgombri e nuove occupazioni si susseguono. A Torino, Palazzo Campana, sede delle facoltà umanistiche, viene sgombrato e rioccupato più volte in un braccio di ferro che si concluderà con un diluvio di denunce ai danni degli occupanti. Il 2 febbraio viene occupata l'università di Roma, la più grande d'Italia. Alla fine del mese, il rettore D'Avack fa intervenire la polizia.

Il giorno dopo, primo marzo, un corteo di protesta arriva a Valle Giulia, sede della facoltà di architettura, e forza i blocchi della polizia. Gli scontri durano per ore. L'eco è enorme. I giornali, in edizione straordinaria, parlano di "battaglia". Con i fatti di Valle Giulia il movimento studentesco si sposta definitivamente dal piano di una protesta universitaria a quello della contrapposizione frontale con l'intero assetto sociale.

Nella cultura del movimento confluiscono i diversi filoni di pensiero critico e di protesta sociale che avevano costellato gli anni '60: l'elaborazione delle riviste della sinistra non istituzionale e quella dei vari gruppi cattolici dissenzienti; la critica alla società dei consumi elaborata dalla Scuola di Francoforte e da Herbert Marcuse nel suo celebre "L'uomo a una dimensione" e i fermenti terzomondisti innescati dalle lotte di liberazione dei popoli ex coloniali e dalla guerra nel Vietnam; l'"antipsichiatria" praticata da Franco Basaglia nell'ospedale di Gorizia e il movimento libertario giovanile sviluppatosi negli anni del "beat italiano". Inizialmente meno visibile, ma destinata ad affermarsi sempre di più negli anni successivi, sino a mettere in discussione l'intera impostazione politica del movimento, è l'originale versione del femminismo impostata da alcune pensatrici italiane.

EXCURSUS

Verso la fine degli anni Sessanta circolava in Occidente un clima di ottimismo. Il progresso culturale, economico e scientifico sembrava preparare un'era di pace, sicurezza, ricchezza e comodità; il Cristianesimo stesso, con l'appena concluso Concilio Vaticano II, sembrava avviato verso l'unione dei cristiani delle varie confessioni religiose e la riconciliazione con la "modernità". Le tre figure simboliche di Kennedy, Krusciov e Giovanni XXIII avevano incarnato queste speranze tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Eppure, come ammoniva san Paolo, quando tutti annunciano "pace e sicurezza", proprio allora bisogna temere l'arrivo di una sciagura: o un colpo di mano diabolico che si approfitta della ingenuità umana, o un castigo divino che risveglia alla dura realtà, o entrambe le cose. Molti segni evidenti smentivano questo facile ottimismo. Il rilassamento dei costumi aveva favorito il sonno delle coscienze e aveva provocato una grave fragilità sociale. La "cultura della rivolta" circolava liberamente nelle scuole, nella letteratura, nel giornalismo, negli spettacoli, soprattutto nella musica giovanile. La propaganda sinistrorsa esaltava idee, personaggi e comportamenti "trasgressivi" e incitava a nuove forme di "lotta di classe": quelle tra vecchi e giovani, tra insegnanti e scolari, tra genitori e figli, tra marito e moglie, tra uomo e donna, tra clero e laici. La ribellione giovanile, la contestazione scolastica, la rivolta sindacale, la dissidenza ecclesiale, la rivoluzione sessuale cominciavano già a manifestarsi in forme marginali e pittoresche, che venivano guardate con simpatia o antipatia, ma non venivano comprese né combattute nella loro gravità.
Questa propaganda dell'assoluta libertà di pensiero e di parola pretendeva ormai di realizzarsi in un'assoluta libertà di azione. Il tranquillo conformismo degli anni Sessanta stava per essere rovesciato dalla "rivolta globale", favorita non da un clima di moralistica repressione, come immaginavano gli psicoanalisti, bensì da un clima di rilassatezza e permissivismo (la "dolce vita") che rifiutava non solo l'autorità, il lavoro e il sacrificio, ma anche l'ordine, la società, la civiltà.