
La storia delle rivendicazioni femminili in Italia inizia verso la fine dell’800, anche se in quel periodo non si parlava ancora di femminismo vero e proprio. La lotta delle donne era legata alla lotta di classe di tutti i lavoratori, anche se era differenziata, poichè alcuni settori della nuova industria occupavano prevalentemente manodopera femminile. C’era lo sciopero delle mondine, c’era quello delle lavoratrici del tabacco, scioperavano nelle filande per le cattive condizioni di lavoro, per i salari e soprattutto per ridurre le ore lavorative da 12 a 10. Soltanto dopo la prima guerra mondiale, negli anni 20, si cominciò a parlare di “emancipazione”. Le donne chiedevano di poter votare, e chiedevano l’accesso alle facoltà universitarie da cui erano escluse. La prima donna medico in Italia risale a quegli anni. Nel 1942 nasceva a Roma, nell’Italia ancora in guerra, la Unione Donne Italiane (U.D.I.), su iniziativa di tre donne... dei nascenti partiti di sinistra: Rita Montagnani Togliatti, Maria Romiti e Giuliana Nenni. Contemporaneamente, entrava in scena un’organizzazione di matrice cattolica, il C.I.F.(Centro Italiano Femminile), guidato da Maria Rimoldi. Il numero delle rappresentanti era esiguo: 26 iscritte per il C.I.F., più o meno altrettante per l’U.D.I. Le due diverse associazioni in qualche modo rispecchiavano quella che sarebbe stata la situazione dell’Italia nel dopoguerra, con un fronte laico e uno cattolico che spesso avrebbero visto intersecarsi i loro percorsi. In quel periodo si iniziava a discutere quale dovesse essere il ruolo delle donne nella politica. Inizialmente il percorso non era autonomo, ma strettamente legato ai partiti di provenienza. La spinta femminile per l’emancipazione si esaurì con il raggiungimento del diritto al voto, nel 1946.
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